Vorrei sentire la tua voce gridare, tentare, sbagliare…

“Era un ragazzo di così buona famiglia”, si sente dire con sottofondo di campane a morto. A volte anche dalla famiglie migliori vengono fuori individui legati indissolubilmente a un’idea, per la quale sono pronti a gridare, tentare e sbagliare a prescindere. Le famiglie migliori, anzi, sono proprio quelle che pompano nel cuore della nostra società, svuotata e rassegnata, i loro figli cresciuti così. In ogni ambito, i gendarmi del quieto vivere allungano sempre più i tentacoli della repressione. La curva Maratona conta ormai decine di diffidati per motivi (motivi?) incomprensibili, al di là di ogni logica e giustizia: ce n’è per chi ha cercato di afferrare la maglietta di un giocatore a fine partita, per chi ha acceso una torcia lontanissimo dallo stadio, per chi si è attardato a fare quattro chiacchere tra i tornelli e gli ingressi, per chi è stato “visto” in una zona dove non avrebbe dovuto essere (tanto, 50 metri più in qua o più in là significano solo due anni di firma ogni domenica). Il continuo inasprimento delle leggi sulla violenza nel calcio ha appiattito ogni differenza tra ultras e semplice tifoso. L’Athletic Daspo granata è formato da ultras che orgogliosamente rivendicano le loro azioni e le loro turbolenze, ma anche da una notevole quantità di tifosi che – da un giorno all’altro – si è trovata sbattuta in un labirinto di denunce, interrogatori, avvocati, aule di tribunale. La fede comune di tutte queste persone è il Toro; la famiglia comune di tutte queste persone è la Maratona.
…Non sopporto più di vederti morire ogni giorno, innocuo e banale


Lungo ed interessante servizio su Sport Week dedicato ad Artur Boruc. Il portiere polacco ha raccontato in esclusiva: "Il segno della croce prima della partita è una mia abitudine, il modo per caricarmi. E più carica sento, dentro e intorno a me, più il mio rendimento sale. In questo, l'Old Firm è il massimo: l'adrenalina che senti lì, non esiste da nessun'altra parte".

Febbraio 2006: a pochi istanti dal fischio d'inizio, Boruc si volta verso la curva dei Rangers, protestanti, e si segna: "Sentii alzarsi alle mie spalle una specie di ruggito. Alla polizia ci vollero 10 minuti per riportare la calma".

Da quel giorno, per i tifosi del Celtic è stato The Holie Golie, il Portiere Santo: "Ci hanno pure costruito sopra un coretto che mi cantavano a ogni partita. La polizia voleva processarmi, mi hanno convocato in Tribunale, c'è stata un'interrogazione parlamentare. La Chiesa mi ha difeso. Insomma, un casino. [...] Non devo mica vergognarmi per la mia fede, no?".

Sull'esperienza in Scozia: "A me quel calcio piace: intenso, caldo, genuino, selvaggio. Ma anche leale. In campo nessuno si risparmia e si mena alla grande, ma senza cattiveria. Il pallone lo intendo così: allo stadio non si va come a teatro, dalla gente mi aspetto passione e calore. Quelli che ho trovato quando la Fiorentina ha giocato a Napoli per esempio. Io stesso sono un tifoso: ero uno dei capi della Curva del Legia Varsavia, la prima squadra per cui poi ho giocato".

Alla Fiorentina ha preso il posto di Frey, idolo dei tifosi. Nessuna paura? "Il calcio non mi ha mai fatto paura: è il mio lavoro. Ho lasciato il Celtic dopo 5 anni proprio perché avevo bisogno di nuove sfide, nuovi stimoli. Provo paura solo per la mia famiglia. Ho perso mio padre due anni fa e mia madre che ero appena ventenne, entrambi uccisi da un tumore. Ecco di cosa ho paura: delle malattie".

Come definirebbe sé stesso? "Tranquillo (perché so cosa voglio nella vita: giocare a calcio e crescere come persona). Pazzo (perché voglio vincere anche in allenamento, e non sopporto quando la squadra non è compatta e arrabbiata abbastanza per farlo). Orgoglioso (per le mie origini e perché nessuno mi ha regalato niente)".

Ecco, infine, il perché delle poche interviste: "Non conosco bene l'italiano, e tanti giornalisti non sanno l'inglese: non volevo che fosse travisato quello che dico".

Sport Week, 12 novembre
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