Vorrei sentire la tua voce gridare, tentare, sbagliare…

“Era un ragazzo di così buona famiglia”, si sente dire con sottofondo di campane a morto. A volte anche dalla famiglie migliori vengono fuori individui legati indissolubilmente a un’idea, per la quale sono pronti a gridare, tentare e sbagliare a prescindere. Le famiglie migliori, anzi, sono proprio quelle che pompano nel cuore della nostra società, svuotata e rassegnata, i loro figli cresciuti così. In ogni ambito, i gendarmi del quieto vivere allungano sempre più i tentacoli della repressione. La curva Maratona conta ormai decine di diffidati per motivi (motivi?) incomprensibili, al di là di ogni logica e giustizia: ce n’è per chi ha cercato di afferrare la maglietta di un giocatore a fine partita, per chi ha acceso una torcia lontanissimo dallo stadio, per chi si è attardato a fare quattro chiacchere tra i tornelli e gli ingressi, per chi è stato “visto” in una zona dove non avrebbe dovuto essere (tanto, 50 metri più in qua o più in là significano solo due anni di firma ogni domenica). Il continuo inasprimento delle leggi sulla violenza nel calcio ha appiattito ogni differenza tra ultras e semplice tifoso. L’Athletic Daspo granata è formato da ultras che orgogliosamente rivendicano le loro azioni e le loro turbolenze, ma anche da una notevole quantità di tifosi che – da un giorno all’altro – si è trovata sbattuta in un labirinto di denunce, interrogatori, avvocati, aule di tribunale. La fede comune di tutte queste persone è il Toro; la famiglia comune di tutte queste persone è la Maratona.
…Non sopporto più di vederti morire ogni giorno, innocuo e banale
La follia del tifo violento contagia anche l'isola felice dell'hockey su ghiaccio. Sport rude e maschio in campo ma non certo noto per le intemperanze dei suoi ultrà, comunque quattro gatti rispetto a sport come il calcio. È successo domenica scorsa, al termine del match-clou del campionato nazionale di serie A2 tra Milano ed Egna, vinto ai rigori (3-2) dagli altoatesini che hanno consolidato così la propria leadership. Milano resta al 2º posto, ma ai tifosi lombardi sono andati di traverso le parate e forse un gesto d'esultanza troppo colorito (pare un dito medio alzato) del portiere Martin Rizzi. Dieci minuti dopo, l'assalto allo spogliatoio ospite, raccontato da uno degli "assediati": il vicecapitano Markus Simonazzi.

Simonazzi, che cos'è successo a fine partita?
«Trenta o quaranta ultrà con il volto coperto hanno preso d'assedio il nostro spogliatoio, colpendo l'accompagnatore Thomas Lazzeri (poi sottoposto alla tac, fortunatamente negativa, ndr). L'hanno aggredito davanti alla porta, quindi alcuni di loro sono riusciti a entrare nello stanzone. Noi giocatori siamo riusciti a spingerli fuori dopo un breve parapiglia nel corso del quale il nostro allenatore Rob Wilson si è rotto un dito. Non contenti, quegli esagitati hanno rotto una finestrella, che però era troppo piccola per permettere loro di entrare e per fortuna anche per lanciare dentro lo spogliatoio i loro fumogeni».

Non avete chiesto aiuto?
«Sì. Un mio compagno di squadra aveva chiamato la Polizia con il cellulare: finalmente all'arrivo degli agenti, gli ultrà, che avevano anche danneggiato il nostro pullman, si sono allontanati. Ma le assicuro che ce la siamo vista davvero brutta».

Avete temuto per la vostra incolumità?
«Certo. La cosa più grave è che quando si gioca a Milano bisogna aver paura di vincere. Da sportivo è una cosa che non posso accettare».

Dicono però che il vostro portiere avesse fatto un gestaccio agli ultrà milanesi.
«A Milano ci sono mille spettatori che fanno un gran tifo, ma dalla curva arrivano anche insulti, minacce e sputi. Io non so se Rizzi abbia alzato il dito medio all'indirizzo del pubblico, ma se lo ha fatto va capito. E comunque nemmeno un gesto come quello giustifica quello che è successo poi negli spogliatoi. Quegli ultrà avevano il volto coperto dalle maschere da sci, non credo che siano andati a prenderle dopo il gesto di Martin!».

È vero che nell’impianto milanese non c’erano poliziotti a proteggervi?
«Io sono un hockeista e penso a giocare. Dopo quanto è successo non so dire quali iniziative possa prendere la mia società. Ma di una cosa sono certo: il mio compagno di squadra Peiti, che non aveva preso parte alla partita, era fuori dallo spogliatoio e ha coperto il logo dell'Egna sulla giacca a vento per non essere picchiato e per andare a cercare aiuto».

È grazie a lui che è arrivata la polizia?
«No, anzi. Ha fatto tutto lo stadio di corsa alla ricerca di qualche agente, per denunciare quello che stava accadendo. Ma non ne ha trovato nemmeno uno. La polizia è arrivata solo un quarto d’ora dopo, perché l’avevamo chiamata noi con i cellulari».

La Stampa, 21 dicembre
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