Vorrei sentire la tua voce gridare, tentare, sbagliare…

“Era un ragazzo di così buona famiglia”, si sente dire con sottofondo di campane a morto. A volte anche dalla famiglie migliori vengono fuori individui legati indissolubilmente a un’idea, per la quale sono pronti a gridare, tentare e sbagliare a prescindere. Le famiglie migliori, anzi, sono proprio quelle che pompano nel cuore della nostra società, svuotata e rassegnata, i loro figli cresciuti così. In ogni ambito, i gendarmi del quieto vivere allungano sempre più i tentacoli della repressione. La curva Maratona conta ormai decine di diffidati per motivi (motivi?) incomprensibili, al di là di ogni logica e giustizia: ce n’è per chi ha cercato di afferrare la maglietta di un giocatore a fine partita, per chi ha acceso una torcia lontanissimo dallo stadio, per chi si è attardato a fare quattro chiacchere tra i tornelli e gli ingressi, per chi è stato “visto” in una zona dove non avrebbe dovuto essere (tanto, 50 metri più in qua o più in là significano solo due anni di firma ogni domenica). Il continuo inasprimento delle leggi sulla violenza nel calcio ha appiattito ogni differenza tra ultras e semplice tifoso. L’Athletic Daspo granata è formato da ultras che orgogliosamente rivendicano le loro azioni e le loro turbolenze, ma anche da una notevole quantità di tifosi che – da un giorno all’altro – si è trovata sbattuta in un labirinto di denunce, interrogatori, avvocati, aule di tribunale. La fede comune di tutte queste persone è il Toro; la famiglia comune di tutte queste persone è la Maratona.
…Non sopporto più di vederti morire ogni giorno, innocuo e banale
Ecco, succede anche a loro, agli ultras della Curva Nord o alla Bergamo bene che sta seduta e raggelata in tribuna. Sarà un pessimo Natale per la tifoseria dell’Atalanta, e questa partita del mercoledì sera non sarà facile da dimenticare. C’è Cristiano Doni, la bandiera, il Capitano, che nel carcere di Cremona nemmeno se l’è vista. C’è l’emergenza, adesso, la paura di sprofondare in penalizzazioni, di uscire dalla serie A, la sfiducia. E nell’emergenza anche lo stadio Azzurri d’Italia, come si legge nello striscione in Curva Nord, si affida al Presidente: «Percassi, tutta la tifoseria è con te, non mollare!».

Non mollare perché la tentazione ci può stare, e il gelo allo stadio di questo mercoledì sera non è solo questione di temperatura. Nemmeno gli amici del «Bocia», l’ultrà più ultrà di tutti, quello che non può più vedersi le partite dalla curva, hanno voglia di protestare innocenze, denunciare complotti, inventarsi congiure. In fondo è bastato leggere l’«Eco di Bergamo» di ieri, il prudente quotidiano della città, che ha pubblicato intercettazioni e altre stravaganze del Capitano. Lo striscione con il numero 27, il suo numero, in curva non c’è più. Non c’è più il capitano, solo il Presidente.

A Bergamo non bisogna essere ultrà per ricordare che Antonio Percassi dell’Atalanta è stato giocatore e capitano. «Si è ritirato a 24 anni, nel 1975», va a memoria Daniele Belotti, che in curva nord è cresciuto, ora è assessore regionale leghista e nulla rinnega. Tra immobiliare, abbigliamento, grande distribuzione e calcio, Percassi ha 4 mila dipendenti. Il più noto, prima nel bene ora proprio no, è Cristiano Doni. Che, da ieri, è sparito anche da «Palla al Centro», il giornalino distribuito allo stadio. Nessuna foto. Solo il nome nell’organigramma della squadra: «Squalificato».

È stata la serata dei cattivi pensieri, domani interrogano Doni, chissà cosa dirà, e non era cominciata bene. Dieci minuti e il Cesena va in vantaggio, pare proprio una partita disgraziata. Altri dieci minuti, un rigore di Denis, un gol di Marilungo, e l’Atalanta è in vantaggio (poi arriverà un’altra rete di Marilungo e il gol di Peluso). La Curva ritrova adrenalina e mortaretti, solo una vittoria può cancellare, almeno per una sera, gli incubi della vicenda Doni. E solo una vittoria può convincere il Presidente a «non mollare». perché Doni ormai è dato per perso, ma a qualche colpa della società nessuno vuol credere, men che meno a dirigenti inguaiati tra scommesse e partite taroccate.

L’assessore Belotti, uno che la tifoseria la conosce bene, dice che in questo stadio le sensazioni sono due: «C’è chi ha già mollato Doni e chi si sente frastornato, come il marito abbandonato dalla moglie all’improvviso». E frastornati sono anche gli ultras. Il «Baretto», il chiosco proprio davanti allo stadio dove si ritrovano, non è locale consigliabile per i cronisti. Eppure, un’ora prima della partita, si poteva sentire la voce disperata di una ragazza bionda, sciarpa dell’Atalanta al collo, bicchiere di birra in mano: «Io l’ho difeso fino alla morte, ma è un mentecatto. Che adesso paghi. Però, prima, parli...».

Perché in fondo è questo che pesa, averci creduto, averlo amato. Aver speso mille euro per aggiudicarsi una sua maglia, averla comprata per i figli. E pesano i cortei e le proteste di agosto, quando tutta Bergamo lo credeva un martire. Qui dicono che «dopo tre fette devi capire che è polenta», come ha scritto Cristiano Gatti, giornalista e tifoso dell’Atalanta. L’hanno capito, a Bergamo. «Nessuna pietà per chi tradisce», si leggerà a fine partita su uno striscione della Curva. Il Capitano è ormai da dimenticare. Solo Colantuono va controcorrente: «Doni? Non abbandoniamo nessuno nei momenti di difficoltà» dice il tecnico a fine partita. Per gli altri c’è solo il Presidente

La Stampa, 22 dicembre
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